Descrizione
Le vie della storia
In tempi remoti, a seguito dell’ultima glaciazione (10.000 anni fa), si formò in questa valle un lago dovuto al distacco di una frana in corrispondenza della strettoia tra il Monte Sirochiplas – Širokiplaz ed il Monte Tanavasagio; questo lago fu probabilmente una risorsa per gli antichi cacciatori nomadi, ma allo stesso tempo poteva rappresentare un ostacolo per gli spostamenti. La mancanza di insediamenti risulta sintomatica rispetto all’inospitalità di questa vallata, che poteva dunque rappresentare solo un corridoio di passaggio. I gruppi di stirpe slava si stabiliscono in Valle probabilmente tra la fine del VI e l’VIII secolo d.C. e rappresentano i primi abitanti attestati e documentati per la Valle.
I gruppi appartenenti alla più ampia famiglia degli Slavi si spostano dalle aree centro-orientali europee, al seguito delle tribù degli avari. Alcuni di tali gruppi si insediano nelle zone disabitate delle Alpi orientali, andando ad occupare le zone più marginali, spesso boschive: questi popoli formano un insieme omogeneo, che viene definito Slavi alpini.
Diverse sono le teorie sulle direttrici d’ingresso di questa popolazione: si potrebbe supporre che la valle del Mea fosse il corridoio d’arrivo più logico. Ma è stata avanzata anche un’ipotesi corroborata da elementi culturali, che propone una connessione di queste popolazioni con quelle dell’Alto Natisone, Medio Isonzo e Valle del Cornappo. Su questa base è stato possibile ipotizzare come rotta d’arrivo quella che percorreva la sella di Caporetto (Kobarid) e risaliva la Valle del Natisone. I percorsi si diramavano sulle pendici delle Zuffine, Carnizza di Monteprato e Gran Monte. I sentieri che attestano tale relazione erano tracciati in quota evitando il fondovalle e collegavano Monteaperta, Montemaggiore, Lusevera, Taipana, Subit, Porzûs e Canebola. Un’interessante prova di questi contatti risulta la centralità del culto relativo alla Chiesa della SS. Trinità (Sveta Trojica) di Monteaperta, luogo sacro notevolmente antico (XI-XII secolo) e meta di pellegrinaggi che richiamavano (e richiamano ancor oggi) tutte le popolazioni slave delle zone contermini. In questo modo, se rispetto alla pianura le genti slave erano isolate e non partecipavano alle vicende delle genti latine se non indirettamente, i legami interni erano frequenti e si sviluppavano e condividevano una comunità di sentimenti ed interessi tutta affidata ad una rete di tracciati che si snodavano sugli altopiani e a mezza costa sulle pendici dei monti. Con il mondo friulano, invece, non c’è traccia di scambio per un lungo lasso di tempo.
L'isolamento
A cavallo tra il primo ed il secondo millennio dell’era cristiana questa terra entra a far parte, da un punto di vista amministrativo, del Patriarcato di Aquileia (1077 – 1420), uno Stato Feudale che ricadeva nell’area del Sacro Romano Impero. Le prime testimonianze scritte riguardo le “ville slave” dell’Alta Val Torre sono tardive e scarne: nel 1150 è citata Lusevera, Pradielis nel 1161. La mancanza di notizie è totale per lungo lasso di tempo, poiché nemmeno l’archivio della Pieve di Tarcento va oltre le citazioni delle imposte dovute per i servigi di un sacerdote che nemmeno risiedeva nella valle, ma a Tarcento.
L'intervento di Venezia
Il silenzio su queste terre montane perdura fino all’intervento della repubblica di Venezia (1420 – 1797). La Serenissima si premura di censire il territorio e di tentarne il controllo, almeno per quanto riguarda le “comugne”, cioè i territori di uso comune, e la cura dei boschi. L’intervento di Venezia è il primo passo verso la rottura dell’isolamento. Venezia cerca di fare una politica di compromesso, badando che i propri interessi politici, economici, militari fossero salvaguardati e lasciando alle strutture locali preesistenti il compito dell’amministrazione spicciola. Le popolazioni di confine delle Valli del Torre che, in caso di minaccia o di guerra, dovevano custodire i valichi montani, ottengono dalla Repubblica Veneta notevoli privilegi, soprattutto di carattere fiscale. Ma, d’altro canto, i nobili del tarcentino non intendevano rinunciare ai propri privilegi ed interessi sui territori della montagna. Il periodo tra il Cinquecento ed il Settecento è caratterizzato, nelle fonti, da attestazioni di contese e liti tra i valligiani ed i signori di Tarcento per l’usufrutto dei boschi e delle attività di fluitazione del legname, nonché per i pretesi balzelli. Quello che interessava ai potenti, ai padroni della pianura erano i boschi di Musi, da cui trarre un profitto netto a scapito della popolazione che non conosceva nemmeno la lingua di chi arrivava a pretendere qualsiasi cosa potesse essere di vantaggio alle proprie tasche.
Il Vicariatus Sclaborum
Sono i missionari del Patriarcato di Aquileia, in particolare ai tempi di Paolino II (787 – 802), a convertire le popolazioni slave dedite al paganesimo. Sin dal medioevo la Pieve di Tarcento aveva l’obbligo di mantenere un prete di lingua “sclabonica” per gli impegni di ministero nei confronti delle popolazioni dell’Alta Val Torre. Ma pare che l’obbligo di tenere un vicario di lingua slovena fosse largamente disatteso. Così durante il ‘600 le popolazioni della montagna si agitano: non sopportano di restare abbandonate a loro stesse e vogliono che le antiche consuetudini siano riconosciute legalmente. Nel 1606 il pievano di Tarcento viene citato in giudizio. La sentenza sancisce il diritto delle ville di montagna di eleggersi ogni tre anni un cappellano di lingua slovena. Nel 1607 il Patriarca della grande riforma della diocesi aquileiese, Francesco Barbaro (1593-1616) fonda uno specifico vicariato slavo, il “vicariatus sclaborum” che accorpa le dieci ville slave di Coia, Sammardenchia, Stella, Zomeais, Ciseris, Sedilis, Villanova, Lusevera, Pradielis e Cesariis. Tuttavia, il vicario di lingua slovena resta, con casa propria, a Tarcento e raramente si fa vedere nelle cappelle delle ville slave. Non si spegne però il desiderio delle popolazioni dell’Alta Val Torre di avere un prete che, in più dell’antica consuetudine, venga ad abitare nella vallata.
Il vicariatus dura per oltre un secolo, fino al 1730, quando le borgate di Lusevera, Pradielis e Cesariis chiedono di staccarsi dal pattuito consorzio e di autogestirsi religiosamente. La curia, di fronte alle ripetute petizioni, eretta a sacramentale la Chiesa di San Giorgio di Lusevera, il 28 aprile 1738 accorda ai fedeli la facoltà di mantenersi un cappellano stabile con residenza fissa in quella villa. Nel 1840 nasce la prima curatia di Villanova; nel 1860 Pradielis ottiene un suo sacerdote che pochi anni dopo avrà la cura dei casolari di Vedronza; nel 1904 anche Cesariis avrà un suo curato.
Negli ultimi decenni dell’800 vengono erette le chiese nuove. Di quelle che potevano aver servito le liturgie precedenti, non ci sono notizie se non per Lusevera e Villanova, per le quali si è certi che alla fine del Cinquecento (1590-1598) esisteva un qualche edificio di culto, essendo documentata la sepoltura dei defunti sul sagrato.
Lusevera costruisce una nuova chiesa (sembra su disegno di Girolamo d’Aronco) che dominerà la vallata intera dal 1897, dedicata a San Giorgio; a San Floriano, come nel Cinquecento, Villanova dedica la sua chiesa nel 1874; due anni prima, nel 1872, Cesariis costruisce la sua chiesa dedicata ai SS. Ermacora e Fortunato; un anno dopo, nel 1873, Pradielis ha la sua grande chiesa in onore di San Giuseppe.
Il terremoto del 1976 spiana queste chiese che tanto sacrificio erano costate alle popolazioni delle ville.
Sett’anni di instabilità
Dal 1797 al 1866 ben quattro Stati diversi si succedono nel governo di questi territori, ciascuno con i propri sistemi e modi di amministrare. Dopo la caduta della Repubblica di Venezia (1797), il Friuli passa all’Austria, che lo perde per un breve periodo in cui fa parte del Regno d’Italia sotto Napoleone, dal 1805 fino alla Restaurazione. Nel 1815, il Congresso di Vienna sancisce la definitiva unione di Veneto e Friuli con la Lombardia austriaca, venendosi in tal modo a costituire il Regno Lombardo Veneto.
Gli anni della fame
I primi anni della Restaurazione sono contrassegnati da una terribile carestia. Decisive furono le avverse condizioni climatiche che provocano pessimi raccolti per due anni consecutivi, 1l 1815 ed il 1816. Si diffonde una miseria tremenda specie nelle zone montane, provocando un vero e proprio esodo verso le zone della pianura. Il Governo, dopo l’inazione del primo anno di carestia, prende vari provvedimenti, anche istituendo commissioni comunali per la distribuzione di una zuppa economica. Fortunatamente il raccolto del 1817 è più abbondante e la crisi viene superata.
L'Italia
Al termine della terza guerra d’indipendenza (1866), l’arrivo dell’Italia non muta le condizioni economiche e sociali di questa comunità. L’Italia dà avvio ad un processo di livellamento ed assimilazione culturale di queste popolazioni. Il Giornale di Udine del 22 novembre 1866 così si esprimeva “Questi Slavi bisogna eliminarli, col benefizio, col progresso e colla civiltà. (…) Adopereremo la lingua e la coltura di una civiltà prevalente qual è quella italiana per italianizzare gli Slavi in Italia (…)”. A partire dal 1870 lo sloveno scompare dai riti religiosi delle chiese di Lusevera e Villanova. Alla scuola viene affidata l’opera di assimilazione. A parte ciò, lo Stato dimostra un totale disinteresse per le gravose condizioni di vita di questa gente che non migliorano. Un esempio eclatante di questa non considerazione verso la popolazione della valle è dato dalla centrale idroelettrica di Vedronza. Questa forniva energia alla rete Tranviaria di Udine dal 1908, ma l’energia elettrica entra nelle case di Vedronza appena nel 1919, nel 1920 a Pradielis e Lusevera, nel 1927 a Cesariis e Micottis, nel 1946 a Villanova, nel 1958 a Musi e nel 1959 a Pers!
La prima guerra mondiale si consuma in una specie di immobilità temporale nella Val Torre. Nell’ottobre del 1917 la visita pastorale dell’Arcivescovo finisce con la tragedia dell’occupazione da parte dell’esercito austriaco che poi perde la guerra.
La gente, successivamente, sopporta le vicende di un fascismo che passa, da queste parti, senza lasciare traccia: ritorna la disattenzione e l’isolamento dei secoli passati. Dagli anni venti agli anni del secondo conflitto, nel racconto dei testimoni, c’è la memoria di un’emigrazione femminile fatta costume, la presenza dei preti in ogni frazione e la scuola che tutti frequentano per ritrovarsi nelle stesse condizioni. Il fascismo oggettiva la totale italianizzazione. Nel 1933 un’ordinanza prefettizia di Udine proibisce l’uso della parlata slovena anche nella liturgia.
La lotta partgiana
L’8 settembre 1943 Badoglio firma l’armistizio con gli Anglo-Americani. Il Friuli, come tutto il territorio delle province di Trieste e Gorizia, è occupato dai tedeschi. La resistenza armata, prima in fase di assestamento, diventa un’organizzazione concreta: nascono, soprattutto nelle montagne delle Prealpi Centrali ed Orientali, i primi reparti partigiani per combattere i nazifascisti.
Nelle Valli del Torre combattono attivamente i battaglioni partigiani Garibaldi e Pisacane affiancati dai partigiani sloveni del Briško-Beneški Odred – Battaglione del Collio e della Slavia veneta. E’ pure presente un nucleo della Brigata Osoppo.
Il 1° novembre 1943 i battaglioni Garibaldi e Pisacane si muovono all’attacco del presidio tedesco di Vedronza, un vero caposaldo protetto da reticolati, postazioni campali, mitragliatrici e mortai. I partigiani vorrebbero distruggere anche la centrale idroelettrica, ma l’azione non ha l’esito sperato. Dopo questo primo vero combattimento faccia a faccia, la guerra partigiana si allarga a macchia d’olio tra queste montagne e vallate, con azioni sempre più pressanti e minacciose.
La Zona Libera Orientale
Il 30 agosto 1944, dopo una battaglia durata poche ore e preceduta da spedizioni notturne, imboscate, atti di grande coraggio i partigiani liberano Nimis. Prende così forma la Zona Libera Orientale un territorio comprendente i Comuni di Attimis, Faedis, Nimis, Torreano, Lusevera, Taipana e parte dei Comuni di Tarcento e Povoletto. Questa zona è di particolare importanza perché, gravitando sulla Udine-Tarvisio, minaccia i rifornimenti tedeschi con l’Austria e, confinando verso est con i territori sloveni presidiati dal IX Korpus, consente stretti collegamenti tra Italiani e Sloveni impegnati nella comune lotta contro i nazifascisti. Anche dal punto di vista amministrativo la Zona Libera rappresenta un aspetto importante: essendo più piccola ed abitata da Italiani e Sloveni, non ha, come quella della Carnia, una giunta di governo centrale, ma la cosa pubblica viene amministrata con organi democratici sostenuti dal popolo ed è proprio in questo momento che il ceto cittadino, anche se timoroso di eventuali rappresaglie tedesche, aderisce con più entusiasmo al movimento di liberazione.
Ma i tedeschi, essendo allentata l’offensiva sul fronte alleato, decidono di risolvere il problema delle zone occupate dai partigiani, zone essenziali per mantenere le comunicazioni con l’Austria. Tra Tedeschi e Cosacchi vengono impegnati 29.000 uomini che con carri armati, autoblindo ed artiglierie vengono dislocate nei paesi confinanti la Zona Libera. Le forze partigiane sono di gran lunga inferiori: 3.500 uomini con scarso armamento, un battaglione sloveno alle spalle che ha il compito di fermare il nemico attraverso il passaggio obbligato di Platischis. I combattimenti sono durissimi: i partigiani si ritirano e si mettono al sicuro. La Garibaldi ripiega verso il Collio mentre le brigate osovane si disperdono nella Valle del Grivò.
La rappresaglia nazista, iniziata il 27 settembre e conclusasi il 1 di ottobre 1944, è feroce e crudele: 23 partigiani vengono bruciati vivi a Valle ed a Costalunga; i paesi sono saccheggiati; centinaia sono i deportati nei campi di concentramento. La Zona Libera non esiste più.
La liberazione
Sui monti rimangono pochi nuclei partigiani anche perché le divergenze politiche tra Garibaldini ed Osovani ritornano a galla fino a giungere alla rottura dell’accordo di unificazione dei due gruppi sancito pochi mesi prima ed al triste episodio dell’eccidio di Porzus, il 7 febbraio 1945.
Dopo lo sfondamento della linea gotica e l’avanzata degli alleati, dal 29 aprile al primo maggio 1945, i Cosacchi lasciano definitivamente queste vallate ed i loro territori. I partigiani della Garibaldi unitamente agli sloveni del Briško Beneški odred avanzano fino a Nimis e Tarcento, liberandole. L’ultima battaglia si consuma contro un presidio tedesco asserragliato nell’edificio della scuola tarcentina. Il partigiano di Monteaperta Curir Giuseppe, nome di battaglia Triglav, guida la formazione partigiana: con destrezza i partigiani accerchiano la postazione e costringono alla resa i tedeschi. Il territorio è definitivamente libero.
L'emigrazione
All’inizio del secolo scorso, l’Alta Val Torre non conosce ancora l’emigrazione, che si consolida in modo uniforme negli anni ‘50-’70. Dopo la costruzione di nuove vie d’accesso, lo sviluppo di nuovi scambi e la presa di coscienza di fonti di reddito che in valle non esistono, si comincia ad emigrare. In un primo momento l’emigrante parte senza una meta precisa, generalmente a piedi. Si accontenta dei lavori più umili, né lo spaventa la fatica. Ritorna a casa quando ha guadagnato abbastanza, e il rientro non avviene in una stagione precisa. Se inizialmente le partenze riguardano piccole percentuali di lavoratori, in seguito l’emigrazione stagionale, diviene normale fonte di reddito per ogni nucleo familiare, fino ad assumere le forme drammatiche dello spopolamento a partire dal 1950 – 1960, quando molte famiglie partono senza fare più ritorno al paese. Le mete più frequenti sono la regione stessa, altre regioni italiane, la Svizzera, la Germania, la Francia e l’America del Nord. Gli emigranti svolgevano mansioni di manovali, spaccapietre, boscaioli, scalpellini, muratori. Una delle conseguenze più significative dell’emigrazione, oltre allo spopolamento, è stata la decadenza del genere di vita agreste ed il deterioramento del patrimonio culturale e linguistico.
Il confine
Dopo la fine della seconda guerra mondiale, l’Alta Val Torre subisce anche la presenza del confine con la Jugoslavia (da presidiare per premunirsi da eventuali attacchi provenienti dall’Est comunista) e diventa, per buona parte, zona militarizzata con presenza di caserme, bunker, servitù militari ed un poligono di tiro posto proprio a ridosso della strada che porta a passo Tanamea, la quale veniva chiusa con frequenza per consentire a vari reparti dell’esercito di esercitarsi nell’area. Quando ciò accadeva, veniva issata una bandiera rossa sul campanile di Musi per avvertire gli abitanti di non spaventarsi per i forti boati e di tenersi lontano dalla zona delle esercitazioni. Nel 1969 cinque cittadini di Musi vengono addirittura denunciati perché, non volendo sospendere il proprio lavoro nei campi, sono accusati di intralciare le esercitazioni militari. Già 10 anni prima, nel 1957, un turista udinese veniva condotto dinnanzi al Pretore e condannato alla pena di 5.000 lire per aver scattato in Passo Tanamea delle fotografie in zona di divieto militare.
Per di più, per anni, un’organizzazione segreta alle dirette dipendenze dell’esercito italiano, opera su questi territori per cercare di snazionalizzare la comunità linguistica slovena, perseguitando sacerdoti, insegnanti ed intellettuali che cominciavano a rivendicare i diritti culturali e linguistici di questa popolazione: si identificava il comunismo con la lingua slovena delle popolazioni del Friuli orientale, col solo risultato di fomentare altro odio e di infierire su una popolazione già sfiancata dall’indigenza e dall’emigrazione.
All’inizio del novecento Enore Tosi, esperto caseario, sosteneva che l’Alta Val Torre sarebbe potuta diventare, per le ricchezze ambientali e culturali, una “piccola Svizzera”. La politica italiana del dopoguerra, invece, non le consente il benché minimo sviluppo.
Il terremoto
Il 6 maggio 1976 è giovedì. La sera è calda e serena. Tutto appare tranquillo. Poi si avverte un brontolio, uno strano boato, un tintinnio di vetri. Nessuno ci bada troppo. Subito dopo una tremenda scossa con durata di 59 secondi di magnitudo pari 6,5 Richter, corrispondente al decimo grado della scala Mercalli, di carattere ondulatorio e sussultorio si abbatte sull’Alta Val Torre e sul Friuli. Gli orologi dei campanili si fermano alle 21 e 24 minuti. Il terremoto provoca molte vittime e danni incalcolabili al patrimonio edilizio e produttivo.
E con la perdita delle case, dei luoghi pubblici e delle strutture urbanistiche si è pure perso un patrimonio tipologico e naturale che si era sviluppato ed evoluto in maniera molto lenta nel tempo, staccato dalla realtà che lo circondava in modo tale da non esserne condizionato. Già nei primi giorni dopo al sisma potenti gruppi economici esercitano una forte pressione psicologica nei confronti dell’intera comunità per dare via a trasformazioni radicali dei nuclei urbani. Non si programma di restaurare gli antichi edifici, né di riedificare le stalle. Si definiscono, invece, una tipologia costruttiva ed un assetto urbanistico nuovi.
La rinascita
“Lavoratori indefessi, dotati di grande forza di volontà, grande spirito di sopportazione, di adattamento, amore della terra natìa” così descrive la gente dell’Alta Val Torre la maestra Alessandra Ferrari giunta a Lusevera nel 1915. Ed, infatti, nonostante tutto, la piccola comunità del Torre ha saputo rimettersi in piedi. Dopo la ricostruzione materiale, si registra un risveglio culturale con la nascita di associazioni, manifestazioni ed iniziative per mantenere, difendere e valorizzare il proprio immenso ed irripetibile patrimonio linguistico e culturale. Inoltre, la caduta del “confine maledetto” tra Italia e Slovenia, avvenuta il 21 dicembre 2007 ha dato nuove speranze di sviluppo e la certezza che questa non sarà mai più “terra al confine”.